Esistono molte tecniche, piuttosto diverse tra loro, che gli psicoterapeuti utilizzano per aiutare le persone che soffrono di disagio psicologico, alcune di queste sono state inventate più di un secolo fa, altre da pochi decenni. Ma la tecnica più recente non è sempre la migliore, per una determinata persona. In questo articolo, parleremo di come trovare la giusta tecnica di psicoterapia per te, in modo che possano provare sollievo dai loro sintomi il più presto possibile.
L’EMDR è una delle tecniche più reclamizzate, intorno alla quale c’è ancora un forte dibattito in ambito scientifico.
L’EMDR è un metodo relativamente nuovo, sviluppato da Francine Shapiro alla fine degli anni ’80. La Shapiro si è imbattuta in questa tecnica per caso, prima ancora di prendere il dottorato, semplicemente perché mentre si trovava nel mezzo di un lutto personale, siccome stava guardando nervosamente da una parte all’altra, a un certo punto ha notato che si sentiva meglio. Pensò di essersi imbattuta in qualcosa e, dopo le sue ricerche, è approdata alla stimolazione bilaterale.
EMDR è un acronimo che sta per Eye Movement Desensitization and Reprocessing, cioè la desensibilizzazione e rielaborazione per mezzo dei movimenti oculari. Questa tecnica è usata per alleviare emozioni, pensieri e ricordi spiacevoli, riesponendo la persona alla sua esperienza traumatica originale o all’angoscia attraverso una serie di stimoli bilaterali appositamente creati. Questo viene fatto facendo concentrare il paziente su uno stimolo esterno, di solito oggetti tenuti in mano o immagini che vengono spostate da una parte all’altra di fronte a lui con gli occhi aperti.
Il metodo EMDR viene utilizzato estesamente per trattare il disturbo post traumatico da stress (PTSD), patologia per la quale ci sono molti riscontri nella letteratura. Qui è possibile sapere di più sulla terapia condotta con l’EMDR.
L’ipnosi è stata usata per secoli, prima dell’ultimo, prima di cadere in disgrazia, probabilmente per via dell’aura di mistero ed errate credenze che l’ipnosi si porta dietro fin da quando è stata introdotta nel mondo medico in occidente.
L’ipnosi è spiegata come uno stato di coscienza particolare, non proprio di sonno e non completamente sveglio. È uno stato naturale, che può essere provocato semplicemente dall’atto di concentrare intensamente la propria attenzione su qualcosa, talmente tanto che c’è poco spazio per qualsiasi altra cosa.
In questo particolare stato di coscienza, è stato dimostrato che si possono ottenere effetti sul corpo e sulla mente che non possono avere luogo negli stati di veglia ordinari.
L’ipnoterapia ha due parti principali: le fasi di induzione e di utilizzo. La fase di induzione è quando qualcuno è guidato in uno stato di rilassamento. Oltre alla vera e propria induzione ipnotica, che è basata principalmente sulle parole, lo psicoterapeuta potrebbe usare la respirazione profonda, il rilassamento muscolare progressivo o le immagini guidate per rilassare il corpo e la mente del paziente.
Tutte queste cose possono aiutare il paziente a entrare nello stato modificato di coscienza attraverso il cosiddetto stato “ipnagogico”, una fase tra la veglia e il sonno che può essere teatro di allucinazioni visive o piacevoli sensazioni di galleggiamento nello spazio. Nella fase di utilizzo, lo stato di coscienza modificato viene usato per lavorare con la mente inconscia del paziente grazie alle suggestioni. Alla fine di questo lavoro, attraverso il cosiddetto stato “ipnopompico”, il soggetto passa alla fase di veglia.
L’interpretazione dei sogni e i lapsus sono solo alcuni esempi di modi in cui otteniamo informazioni sul nostro inconscio. La tecnica delle libere associazioni, sviluppata da Sigmund Freud alla fine del XIX secolo, è un modo per accedere a questa parte nascosta della nostra mente. Si tratta di cogliere i significanti più importanti tra tutte le parole che vengono fuori mentre il paziente in analisi parla liberamente, anche senza pause.
Il primo tentativo di Freud per sondare la mente di una sua paziente era stata l’ipnosi. Poi quella tecnica fu abbandonata in favore della libera associazione. Alla base della scelta di Freud di usare questa tecnica è stato soprattutto il fatto che l’ipnosi non godeva di buona fama, soprattutto all’epoca. Aveva scoperto che i ricordi possono essere non reali e non voleva che la reputazione del modello della mente inconscia della psicanalisi potesse venire danneggiata nei circoli medici e scientifici.
La libera associazione di idee, invece non aveva preconcetti e, di fatto, divenne la strada maestra per l’inconscio dopo, naturalmente, l’interpretazione dei sogni del paziente e i suoi lapsus.
La sessione di analisi è condotta nel tipico modo del divano analitico. L’analista si siede vicino al paziente pur mantenendo la distanza di una poltrona in modo da evitare qualsiasi contatto fisico con il paziente e mantenere l’obiettività.
Durante le sessioni, tipicamente, si alternano periodi di silenzio in cui l’analista aspetta che il soggetto parli, seguiti da periodi in cui l’analista fa domande per capire meglio cosa sta succedendo dietro le parole del paziente.
La discussione è una tecnica usata dagli psicoterapeuti per esplorare i disaccordi e trovare soluzioni con i pazienti. Le discussioni possono essere altamente produttive, poiché entrambe le parti sono impegnate nel processo di risoluzione. L’obiettivo non dovrebbe essere la vittoria di un individuo o di un altro, ma piuttosto l’esplorazione di come ogni persona coinvolta tragga beneficio dalla risoluzione di questo disaccordo.
La psicoterapia è un processo collaborativo, e il lavoro del terapeuta è quello di aiutare a scoprire soluzioni che sono reciprocamente concordate. È importante che entrambe le parti coinvolte in questa discussione siano aperte a tutte le opzioni. Allo stesso modo, può anche essere utile se il terapeuta assume il ruolo di “avvocato del diavolo” che assicurerà che tutte le opzioni vengano esplorate.
La contestazione del terapeuta a volte ha lo scopo di portare la parte razionale del paziente a vedere le cose in modo diverso e a volte può avere l’obiettivo di spiazzare il paziente o anche a portarlo a sfidare alcune credenze.
In ogni caso l’argomentazione del terapeuta non è mai fine a se stessa. Un terapeuta sa bene che è completamente inutile dire a un paziente fobico, per esempio, che l’immagine di un serpente non è in grado di fargli del male. Però quando un paziente, per fare un altro esempio, dice che è più proficuo lavorare 20 ore al giorno, anche se sente lo stress al massimo, allora, intanto razionalmente, il terapeuta lo porta a capire che potrebbe essere proprio il lavoro a portargli quello stress.
E per far questo dovrà mettersi in contraddizione con le affermazioni del paziente.
L’approccio empatico è più che essere un buon ascoltatore. Si tratta di capire e connettersi con l’esperienza del paziente del suo problema, sentendo ciò che sente per capire meglio come aiutarlo a guarire. Attraverso questo processo, i terapeuti spesso imparano nuove intuizioni anche su se stessi.
Approccio empatico non vuol dire che se il terapeuta sente di voler mettere le braccia intorno al paziente e offrire conforto lo debba fare. Potrebbe anche farlo, ma prima si chiederà se questo è ciò di cui ha bisogno il paziente in quel momento e se è corretto dal punto di vista della terapia. Alcune persone potrebbero apprezzare un abbraccio, mentre altre lo troverebbero opprimente o invasivo.
Quando lo psicoterapeuta ascolta, cercherà di non giudicare. Dovrebbe lasciare che il paziente dica la sua opinione senza ombra di critica.
Il terapeuta che usa l’approccio empatico, comunque, non cerca di dare consigli o di risolvere problemi: semplicemente ascolta ed è lì per il paziente, in modo che si questi si senta abbastanza sicuro da poter esplorare ciò che sta succedendo dentro di sé.
Nell’approccio empatico il terapeuta può fare domande che aiutino a costruire la consapevolezza di sé del paziente, come “A cosa pensi quando succede questo?” o “Come ti senti quando succede questo?”
Infine, a volte può capitare che il terapeuta voglia offrire una parola di incoraggiamento, come “Sono contento che tu ci stia provando” o “Deve essere difficile”. Ma sempre senza giudicare.
L’approccio direttivo è quando il terapeuta dice al paziente cosa fare, come gli esercizi da fare per conto proprio, quello che può o che non può fare il paziente, eccetera. L’approccio direttivo tipico è quello dei medici, che possono dare ordini al paziente, per esempio. Nell’ambito della terapia psicologica, esempi tipici di approccio direttivo erano quelli dei personaggi che hanno inventato l’approccio psicoterapeutico come lo conosciamo oggi: Freud, Jung, Erickson. In effetti erano tutti medici ed erano abituati a trattare i pazienti in quel modo, tra l’altro, negli esempi citati parliamo della terapia di più di un secolo fa.
Con l’approccio direttivo lo psicoterapeuta può stabilire, per esempio, un ordine del giorno e un obiettivo per la sessione. Questo è utile nei casi in cui ci sono più problemi perché permette di discutere un problema alla volta.
Lo psicoterapeuta farà delle domande per scoprire quali siano i bisogni del paziente, obiettivi e priorità, così come qualsiasi altra informazione rilevante. Il terapeuta stabilisce poi obiettivi chiari che possono essere utilizzati dal paziente su cui lavorare durante la sessione.
Alcuni terapeuti entreranno nella sessione con una tecnica specifica e un piano in atto per come vogliono aiutare i loro pazienti a fare progressi, come si fa nella terapia cognitivo-comportamentale (CBT), mentre altri aspetteranno comunque che il paziente esponga prima la sua prospettiva o i fatti recenti accaduti e solo in un secondo momento cominceranno a prendere il controllo della seduta.
L’approccio direttivo può essere frustrante per i pazienti che sono abituati ad essere in grado di trovare soluzioni da soli senza aiuto o collaborazione. Tuttavia questo tipo questo approccio è utile i pazienti che non sono abituati ad essere proattivi o a prendersi la responsabilità di focalizzarsi su ciò che è necessario fare.
Nell’esplorazione delle emozioni, sicuramente, la terapia della Gestalt è stata la capostipite.
In una sessione, per esempio, può capitare che il terapeuta cerchi di identificarsi con le emozioni del suo paziente e può dire qualcosa come: “Quello che dici mi fa sentire così…” Spesso questo è in grado di sbloccare le emozioni del paziente che è così libero di esplorarle anche grazie a quello che il terapeuta gli restituisce.
Altri modi di esplorare le proprie emozioni, sempre nella terapia della Gestalt, consistono nel prendere a pugni un cuscino, nell’urlare a squarciagola o nel parlare con una sedia vuota, tanto per elencare i più classici.
In quest’ultimo modo, il paziente immagina che su quella sedia ci sia una persona che, in qualche modo, nella mente del paziente, provoca le sue emozioni o l’assenza di esse e parla come se fosse lì in quel momento, sempre facendo attenzione a quello che sente in quel preciso momento. Poi al paziente può essere chiesto di cambiare posizione, andandosi a sedere proprio su quella sedia, e impersonificando lui stesso la persona che dovrà replicare a quello che il paziente aveva detto prima. In questo modo, oltre a elaborare questioni irrisolte nella propria vita, il paziente impara sentire e riconoscere le proprie emozioni nel momento presente.
Il terapeuta può fare una serie di domande come: “Cosa vorresti vedere?”, “Come puoi rendere le cose più facili?” e “C’è qualcos’altro di importante che deve essere detto qui?”. Il paziente poi descriverà ciò che sta vedendo in dettaglio con la guida del terapeuta e racconterà quello che prova.
Anche le tecniche immaginative sono spesso impiegate quando il terapeuta vuole esplorare una nuova prospettiva o quando il paziente ha difficoltà a ricordare gli eventi del passato, o ciò che pensava e sentiva in un determinato momento chiave.
Lo scopo delle tecniche immaginative è quello di aiutare il paziente ad entrare in contatto con i suoi bisogni o sentimenti interiori. Può anche essere usato come uno strumento per capire come gli eventi passati abbiano avuto un impatto su di lui e hanno cambiato la sua vita, il che potrebbe portare a nuove intuizioni su possibili rimedi.
Nel corso di una sessione, lo psicoterapeuta potrebbe chiedere al paziente di immaginare di interagire con il suo passato. Per esempio, se c’è qualcosa che è successo durante l’adolescenza che lo preoccupa da un po’ e che ha agito come causa di comportamenti non voluti nella vita attuale, allora il terapeuta potrebbe chiedere: “Cosa ti sei detto quando è successo?” oppure: “Come pensi che abbia influito sulla tua autostima nel vedere questo accadere?”. Poi il paziente potrebbe esplorare come ci si sente nella visualizzazione, prima di rivedere come stanno le cose ora.
È un po’ come riportare a galla i ricordi legati a particolari significati, per poi elaborarli con la mente lucida, da adulti, e rimetterli a posto un po’ modificati e migliorati.
La visualizzazione guidata è una tecnica immaginativa che viene utilizzata proficuamente da molti approcci terapeutici, anche completamente diversi tra loro. Viene usata per esempio in ipnoterapia, nella terapia della Gestalt, nelle psicoterapie cognitivo-comportamentale della terza onda, tanto per menzionare le prime psicoterapie che mi vengono in mente.
Comunemente, la visualizzazione guidata è usata per aiutare il paziente a trovare una nuova prospettiva su un problema portandolo in uno stato rilassato dove può esplorare emozioni e sentimenti che nella vita quotidiana potrebbero essere bloccati.
A volte le persone hanno reazioni emotive molto cariche quando pensano a specifici eventi della loro vita. La visualizzazione guidata permette un’esplorazione sicura di queste emozioni e ricordi, proprio grazie al fatto che è guidata: il terapeuta è sempre pronto a intervenire se si accorge che l’esperienza dovesse diventare pesante per il paziente.
Il training autogeno è stato inventato dallo psichiatra tedesco Johannes Heinrich Schultz nel 1932, ed è una tecnica di autoregolazione in cui l’individuo controlla il proprio stato fisico e mentale.
Il primo livello del training autogeno serve per rilassare il corpo, il secondo la mente.
Questa prima fase è piuttosto simile al rilassamento muscolare progressivo di Edmund Jacobson.
La differenza principale è che il rilassamento del training autogeno si esegue tendendo e rilassando sistematicamente diversi gruppi muscolari del corpo, concentrandosi su ognuno di essi, a turno, cercando una sensazione di calore o pesantezza.
L’obiettivo primario in questa fase è quello di rilassare il fisico il più possibile, in modo da favorire il rilassamento mentale della fase successiva.
Il secondo livello del training autogeno è quello in cui si usa il potere dell’immaginazione.
Utilizza un processo in tre fasi: immaginare se stessi in un luogo ideale e sicuro; visualizzare scene pacifiche come fiori o montagne; e poi generare emozioni piacevoli. L’individuo si immagina nel suo posto preferito con un ambiente piacevole e può ascoltare una musica tranquilla. Può anche immaginare di sentirsi felice con qualcuno di importante per lui, per esempio il suo partner o un figlio. Se questa scena non è abbastanza rilassante, passa ad un’altra fino a quando non viene raggiunto lo stato desiderato.
Si ritiene che questa fase rilasci beta-endorfine e serotonina, che sono sostanze chimiche che stimolano il centro del piacere del cervello in modo simile agli oppiacei o alla morfina.
Questa tecnica era in voga soprattutto qualche decina di anni fa come alternativa più semplice a un percorso di psicoterapia vero e proprio. Shultz era un ipnotista e ha inventato il training autogeno perché cercava (anche lui!) di allontanarsi dall’ipnosi. In pratica cercava un modo di arrivare allo stato di coscienza modificato, tipico della trance ipnotica, senza passare per l’induzione che doveva essere per forza fatta da un’altra persona, il terapeuta. Oggi la fortuna che ha conosciuto a suo tempo il training autogeno è stata ereditata dalla mindfulness, che non essendo qualcosa che può essere brevettato come fu a suo tempo per il training autogeno, è uno strumento che può essere utilizzato trasversalmente da più approcci terapeutici.
La mindfulness, che dall’inglese potremmo tradurre letteralmente come consapevolezza, è una pratica buddista che è entrata nel mondo della terapia moderna terapia psicologica grazie a Jon Kabat-Zinn. Mindfulness è il processo di essere pienamente presente e consapevole in ogni momento, senza reagire a ciò che sta accadendo.
Può essere difficile per le persone che sono abituate al multitasking o iper-vigili per rimanere consapevoli del presente, perché si trovano alla deriva con la mente piena di pensieri che interrompono la loro concentrazione su qualsiasi attività stiano facendo.
In terapia, la mindfulness è il processo attraverso il quale il terapeuta e il paziente lavorano insieme per creare uno spazio sicuro in cui esplorare emozioni difficili o dolorose. Questo permette di mantenere la mente più aperta, senza giudicare i pensieri né come positivi, né come negativi e capire come questi pensieri possano influenzare le proprie emozioni.
L’obiettivo della consapevolezza, quindi, non è quello di allontanare questi pensieri, ma di diventarne consapevoli in modo che non controllino la vita del paziente. Questo, a lungo andare, aiuta a sentirsi più tranquilli nella vita quotidiana, anche al di fuori della pratica di meditazione.
La mindfulness, intesa come consapevolezza della presenza mentale, può essere descritta, nel quotidiano, in tre passi:
- Il primo passo è osservare ciò che stiamo facendo nel momento. Questo significa che se si cammina, per esempio, allora bisogna riconoscere le sensazioni (sulle piante dei piedi, sul movimento del corpo) e continuare a osservare fino a quando è possibile, cioè quando la mente si distrarrà inevitabilmente con qualcos’altro.
- Il secondo passo è riconoscere ciò che si sta provando. Questo può essere rabbia, tristezza e così via. Se si tratta di un’emozione dolorosa, allora bisogna riconoscere semplicemente che esiste, ma anche cercare di non soffermarsi sulle emozioni negative, perché non farebbero che peggiorare.
- Infine, dopo aver riconosciuto i propri pensieri ed emozioni, bisogna concedersi un po’ di tempo (di solito un minuto o due) per lasciar passare le emozioni.
Oltre che nello studio dello psicoterapeuta, la mindfulness può essere praticata ovunque: a casa, al lavoro, su l’autobus, e così via. L’unica regola è che deve essere praticata regolarmente per ottenere i migliori risultati.